Francesco Benigno insegue ed applica il rigore dell’indagine storica. Insegna infatti Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Con tutto il piglio dello studioso di storia politica europea della prima età moderna, si è occupato anche dell’analisi dei concetti storiografici, dei processi di costruzione identitaria dei gruppi sociali e della storia della criminalità organizzata. Con il supporto di tutto questo ha dato alle stampe nel 2015 per Einaudi “La mala setta. Alle origini di mafie e camorra”. Ovvero la storia dell’intreccio tra Stato e criminalità organizzata che nei primi vent’anni dell’Italia unita non è mai stata raccontata cosí. L’organizzazione di mafia e camorra immaginate sul modello delle sette segrete si mescola alle pratiche delle autorità, inclini ad usare i criminali nella repressione contro sovversivi e oppositori.

Un libro che si propone di affrontare in modo nuovo la questione del crimine organizzato italiano nella seconda metà del XIX secolo, utilizzando la categoria di «classi pericolose». Questa impostazione è diversa dalla prospettiva, comunemente adottata, che punta viceversa a studiare il crimine organizzato ottocentesco ex post, per cosí dire, «dall’oggi», e cioè a partire dalle forme e dalle strutture che la criminalità organizzata si è data durante il secondo dopoguerra. Vi è al fondo di questa prospettiva un residuo di un pregiudizio di stampo romantico, l’idea per cui vi siano dei soggetti separati, «i criminali», intesi come un popolo a parte, portatore di inequivocabili stigmate comportamentali e attitudinali che li rendono sempre uguali a sé stessi malgrado il tempo trascorso. L’adozione del modello delle «classi pericolose» consente invece di muoversi in direzione opposta, basandosi sulla concezione del crimine condivisa nell’Ottocento. Tutto ciò ha conseguenze importanti. Piuttosto che considerare, ad esempio, l’analisi della mafia delle origini come una sorta di premessa utile a sceverare le radici lunghe di pratiche criminali che daranno poi luogo nel XX secolo a «Cosa nostra», esso invita invece a immergersi nella confusione dei discorsi e delle pratiche di quell’epoca. Inoltre, una prospettiva del genere obbliga a riunire ciò che è stato artificialmente separato, vale a dire l’indagine sulla camorra a quella sulla mafia. Vi è infine il bisogno di uscire da una certa concezione ristretta della storia del crimine come storia sociale intesa alla vecchia maniera, reintroducendovi le urgenze della politica e le forme dell’immaginario collettivo. Lo sviluppo del crimine organizzato nei primi due decenni dell’Italia unita, e in particolare la crescente popolarità di mafia e camorra considerate alla stregua di sette segrete, è strettamente legato alla lotta dello Stato contro gli eversori, repubblicani prima e socialisti internazionalisti poi. In questo dirompente e innovativo libro, Francesco Benigno illustra il rapporto tra il neonato Stato italiano e la criminalità organizzata, avvalendosi di fonti d’epoca poliziesche e giudiziarie oltre che delle fonti giornalistiche coeve. Il risultato dell’indagine mostra come attorno al nodo dell’ordine pubblico la società italiana si divida e si ricomponga lungo linee di frattura che oppongono – a Nord come a Sud – svariate opzioni ideali e politiche e differenti concezioni della pubblica sicurezza. Il libro mostra anche la genesi di pratiche poliziesche di manipolazione, infiltrazione e diversione comuni in epoca liberale e che, attraverso il fascismo, sono poi transitate nell’Italia repubblicana.

Francesco Benigno

Francesco Saggiorato, volendo ricostruire l’impegno storiografico di Benigno, ha usato parole di grande dovizia per la sua recensione al saggio “La mala setta“. “Il dibattito storiografico sulle organizzazioni criminali italiane del XIX secolo – ha scritto Saggiorato – viene riacceso grazie al contributo dello storico Francesco Benigno con l’opera La mala setta. Mediante un approccio decisamente innovativo l’autore prende in esame il crimine organizzato italiano nella seconda metà dell’Ottocento attraverso la categoria delle cosiddette «classes dangereuses». Benigno evidenzia come, durante i primi anni dell’Unità d’Italia, la storia dello Stato governato dai liberali moderati e quella dei gruppi criminali (i camorristi a Napoli, i mafiosi in Sicilia, ma ugualmente le associazioni di malfattori nelle Romagne) siano intrecciate. Durante questo periodo si assiste, da un lato, alla nascita delle suddette organizzazioni criminali, assimilate dall’opinione pubblica dell’epoca al modello della setta segreta, e dall’altro all’impiego, da parte delle autorità della pubblica sicurezza, di criminali per reprimere gli oppositori politici.

L’aspetto innovatore di questo approccio storiografico consiste nel capovolgere la prospettiva che, tralasciando di considerare il reale impatto che la camorra e la mafia delle origini ebbero sui contemporanei, mira a studiare le due organizzazioni criminali come una sorta di anticipazione del profilo che assumeranno nel corso del XX secolo. Benigno sostiene infatti che sia necessario «immergersi nella confusione semantica» dei discorsi dell’epoca (siano essi politici, giudiziari, polizieschi o letterari), che presentarono la camorra come una setta criminale e la mafia come una società segreta occulta, per poter comprenderne il valore. Nel corso dell’opera sono messi in relazione gli eventi politici del tempo con gli effetti che i processi criminali – contro le «associazioni di malfattori» – e le misure straordinarie di polizia ebbero sull’opinione pubblica. Inoltre vengono analizzate anche le rappresentazioni dei milieux criminali nella letteratura attraverso la distinzione, compiuta in seno alla cultura borghese, tra le classi laboriose e quelle pericolose. Dal criminale balzachiano Vautrin alla malfamata foresta parigina di Eugène Sue, il crimine si mescola alla sua stessa rappresentazione romanzesca e nutre l’immaginario. L’autore sottolinea il timore latente, suscitato da una possibile insurrezione della populace, che si lega al mondo della setta segreta, identificata sempre più come una contro-società minacciosa.

La descrizione delle classi pericolose giunge ben presto in Italia e, fin dall’alba dell’Unità nazionale, si evince nei giornali, nei romanzi e nei resoconti della polizia. Il crimine urbano viene paragonato ad una sorta di società segreta – organizzata gerarchicamente, con leggi, rituali e un proprio argot – che è necessario eradicare per garantire la sicurezza nazionale. Nell’opera sono evidenziate le pratiche poliziesche dell’epoca, come l’uso ufficioso dei criminali per la lotta contro le cospirazioni. Un esempio dunque di cogestione dell’ordine pubblico tra polizia e criminali (pratica che risale già Napoleone I) sarà ripresa dalle autorità del regime della Destra storica italiana. «Il faut faire de l’ordre avec le désordre», disse il prefetto di polizia Marc Caussidière, durante i moti del 1848 a Parigi. Una zona d’ombra del potere che dispone di un’armata di agenti infiltrati e di mouchards, controllati dai commissari di polizia, per manipolare i movimenti popolari e i gruppi politici d’opposizione. Il fine sarà di legittimare, agli occhi dell’opinione pubblica, le misure preventive e repressive operate dallo Stato.

Lo sviluppo del crimine organizzato tra gli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento e la popolarità crescente della mafia e della camorra si annodarono strettamente agli sforzi compiuti per reprimere i gruppi d’opposizione politica, dapprima garibaldini e repubblicani, in seguito socialisti e internazionalisti. Tuttavia, come ricorda Benigno, non si tratta soltanto di una storia della repressione, infatti le pratiche poliziesche e giudiziarie mirano anche all’identificazione del «soggetto criminale» e alla produzione di reali modelli di sette criminali organizzate. Considerare i discorsi sul crimine nella loro globalità e compararli a quelli che circolavano nell’opinione pubblica, significa considerare i processi d’identificazione e di repressione come dei processi reali che producevano effetti concreti nella società. Si è dunque di fronte ad un immaginario estremamente performativo e ciò che risulta essenziale, secondo questo approccio narrativo del reale, è ridonare un senso alle realtà criminali, prendendo sul serio gli effetti discorsivi, i quali giocano un ruolo assolutamente decisivo tanto nella costruzione dell’immaginario, quanto in quella delle realtà sociali. Attraverso quest’ottica, Francesco Benigno ci permette, al contempo, di riflettere sugli strumenti di costruzione identitaria e di comprendere i discorsi tenuti all’origine sulla «mala setta», distaccandoci cosi dalle interpretazioni attuali sulle organizzazioni mafiose italiane”.

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