La Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana ha presentato la relazione su un anno di attività dell’organismo parlamentare: una mappatura che ha ricostruito lo stato attuale di Cosa nostra nell’isola. Il presidente Antonello Cracolici analizza modalità ed esiti di un lavoro che consegna conferme e nuove evidenze su cui rafforzare l’impegno di conoscenza, prevenzione e contrasto.
di Antonello Cracolici | Presidente della Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana
La relazione è stata redatta grazie ad un viaggio di tremila chilometri nelle nove province, caratterizzato dall’incontro con i prefetti, i 19 procuratori capo, i 4 procuratori antimafia, i questori, i comandanti provinciali della Guardia di finanza e dei Carabinieri, i vertici delle direzioni investigative antimafia delle singole province. Per la prima volta si sono aggiunte anche le audizioni con 302 amministratori locali dei 391 comuni dell’Isola.
Il confronto con i sindaci dei comuni siciliani costituisce una novità rispetto agli incontri realizzati in passato, un momento di interlocuzione che ho voluto introdurre dalla prima programmazione dei lavori di questa commissione. I comuni sono “presìdi di legalità” nel territorio, ci hanno permesso di conoscere meglio preoccupazioni e sfide quotidiane degli amministratori locali, spesso in difficoltà e sotto tiro.
La mappatura appena conclusa da parte della commissione siciliana ha riguardato le sedi prefettizie, eccezion fatta per i comuni di Favara, Acate e Castelvetrano, scelti per un peculiare tratto criminale, o, come nel caso di Castelvetrano, perché all’indomani della cattura del boss latitante Matteo Messina Denaro.
Particolari esigenze di ascolto o necessità dei territori, insomma, che hanno indotto talvolta a programmare ulteriori audizioni che potessero fornire elementi rilevanti di comprensione dei problemi relativi alla presenza della criminalità organizzata. È il caso, ad esempio, dell’adozione della risoluzione in materia di “Misure urgenti per garantire la sicurezza nei comuni della cosiddetta ‘fascia trasformata’ del Ragusano”, approvata nella seduta di marzo dello scorso anno, seguita alla scomparsa del mediatore ivoriano Daouda Diane, un caso di probabile “lupara bianca”.
Altre sedute ci hanno indotto a chiedere ulteriore documentazione alle prefetture e agli organi inquirenti dei territori interessati, sempre nei limiti dei poteri attribuiti a questa commissione, che non sono investigativi, ma di analisi. Possiamo però fare pressione con l’azione legislativa e amministrativa, sollecitando il governo regionale, come per il caso di Acate, dove, pur essendo presente la criminalità legata al caporalato, abbiamo scoperto che non c’era un sistema di videosorveglianza.
Il confronto con i diversi rappresentanti delle istituzioni, unito all’analisi degli esiti di indagini delle forze di polizia e magistratura hanno portato ad una prima deduzione: la presenza di “una mafia meno pressante, ma capillare, all’insegna del ‘pagare meno ma pagare tutti”.
Le segnalazioni ricevute dagli organi inquirenti e dai sindaci sono state il contrappunto delle operazioni antiracket portate a segno dallo Stato: tutte hanno evidenziato come, alla recrudescenza del fenomeno estorsivo, sia connessa una minore capacità del sistema imprenditoriale siciliano di reagire, sia in termini di denunce che in termini di reazione, con numerosi casi in cui, al contrario, è l’imprenditore o il commerciante a cercare, di sua sponte, la protezione dei clan per la cosiddetta “messa a posto”.
A questo dato si affianca un preoccupante sfilacciamento del tessuto sociale che, invece, sull’onda emotiva successiva alle stragi di mafia, si era schierato contro lo strapotere delle mafie. Una caduta della tensione che si è tradotta in un sentimento di indifferenza che ha determinato l’assenza di associazioni antiracket in alcune province siciliane o la loro cancellazione per inattività, riducendo la loro funzione, in alcuni casi, alla mera assistenza legale della vittima di estorsione senza che ciò si traduca in una attività di prevenzione e sensibilizzazione contro il racket.
Sono 30, in tutto, le associazioni antiracket registrate nell’Isola, 31 se si considera quella in attesa di iscrizione a Ragusa, dove, nel 2021, ben tre associazioni sono state cancellate per inattività. Nella provincia di Agrigento, invece, non risulta alcuna associazione iscritta all’albo prefettizio. Di fronte all’evidenza delle inchieste, poi, è emerso come gli estorti abbiano spesso negato di essere vittima di estorsione.
In questo contesto, il racket si è trasformato nel pagamento generalizzato di piccole somme che, a fronte di minori entrate, hanno garantito una certa acquiescenza da parte degli operatori economici tradottasi in una collaborazione quasi spontanea degli estorti. Nuove forme di raccolta del pizzo anche attraverso le forniture e i servizi, con gli stessi estortori che emettono fattura per le loro attività nei confronti degli estorti.
Le organizzazioni mafiose continuano quindi a controllare in maniera capillare il territorio: è così in tutte e nove le province siciliane? Ci sono elementi comuni o differiscono a seconda della zona di riferimento? Su cosa basano principalmente le loro attività e guadagni?
Il modello criminale mafioso si articola o nei classici mandamenti che hanno una presenza storica che si tramanda in alcuni casi di padre in figlio, un po’ come i titoli nobiliari, o in una spartizione di zone d’influenza dove operano, in autonomia, più soggetti criminali o più famiglie mafiose pronti, tuttavia, a collaborare reciprocamente per i propri interessi. Cosa nostra esercita il suo controllo nel territorio attraverso zone di influenza tramite clan che assumono il comando di intere zone o quartieri.
Questo modello, seppur con elementi di differenza tra le singole province, è una caratteristica di tutto il territorio siciliano. A ciò si aggiunge la compresenza, in alcune province, oltre che dei clan legati a cosa nostra, della Stidda, le due entità convivono e uniscono spesso le proprie forze per competere con le organizzazioni criminali straniere, con un controllo pressoché totale di tutta la Sicilia.
Ma a differenza degli anni ‘80 e ‘90 a caratterizzare le nuove forme di criminalità è una diffusa ‘pax mafiosa’ con un basso livello di conflittualità interna. C’è una mafia con ingenti flussi di capitale illecito che assume caratteristiche imprenditoriali sempre più estese nei diversi settori dell’economia più redditizia: dal settore energetico a quello dei rifiuti, dal turismo a tutte le attività connesse alla gestione del tempo libero.
Una delle evidenze, già nota dalle frequenti operazioni di sequestro della polizia, è legata al traffico degli stupefacenti dal quale le mafie ricavano una parte rilevante delle loro entrate. Ha dichiarato “Mai come in questo tempo la Sicilia è inondata di droga”.
Il traffico di stupefacenti caratterizza il tessuto connettivo delle mafie, garantendo loro ingenti risorse. La diffusione, su tutte, di una droga come il crack, grazie all’alleanza con i clan nigeriani che hanno trasmesso alle cosche locali il know-how necessario per la produzione, e disponibile a costi bassi, ha stravolto la fisionomia di molti quartieri delle nostre città, conquistando fette di mercato sempre più trasversali e abbassando nettamente l’età media dei consumatori.
Con una peculiarità: mentre l’organizzazione mafiosa controlla l’approvvigionamento delle grandi quantità, il mercato della trasformazione degli stupefacenti è affidato il più delle volte a gruppi familiari che, pur non essendo parte delle stesse organizzazioni mafiose, gestiscono la distribuzione al dettaglio. Numerosi sono gli episodi di violenza e criminalità registrati sia per la ripartizione delle piazze di spaccio che per i reati commessi da chi consuma droga, con conseguente aumento di fenomeni come ‘baby gang’ ed episodi di prostituzione anche minorile.
Molte delle emergenze segnalate dai sindaci ascoltati da questa commissione antimafia erano incentrate proprio su questo. Fondamentale è la prevenzione: in questo senso va il protocollo attivato con la Conferenza episcopale siciliana per essere maggiormente presenti sul territorio e la collaborazione al programma “Liberi di scegliere” elaborato dal magistrato Di Bella, che ha permesso alla DDA di Catania di aiutare alcune donne ad allontanarsi, insieme ai figli minorenni, da un contesto familiare mafioso. Dobbiamo offrire alternative ai ragazzi se vogliamo un futuro diverso.
Istituzioni disattente o peggio conniventi e una diffusa confusione normativa sono state richiamate, invece, come causa del proliferare di un altro ramo di interessi delle mafie in Sicilia: il controllo di appalti e subappalti. È una forma di controllo per il quale spesso non serve neanche la connivenza: è sufficiente una scarsa attenzione da parte di chi dovrebbe vigilare, una norma confusa o ambigua. Lo abbiamo constatato con i subappalti, dove sempre più preoccupante appare la caratteristica di servizi affidati a imprese costituite per svolgere singole attività senza che le stesse abbiano una storia imprenditoriale a garanzia della qualità dei lavori e della realizzazione degli stessi.
Con il bonus edilizio abbiamo assistito a una proliferazione di imprese, alcune nate soltanto con la prospettiva di cedere il credito, piuttosto che realizzare le opere. È anche per questo che, come presidente della commissione antimafia, ho chiesto fortemente l’istituzione di un osservatorio sugli appalti in Sicilia che coinvolgerà gli enti appaltanti e le associazioni di categoria per monitorare il sistema e introdurre degli elementi correttivi che possano dare certezza alle procedure e alle modalità di realizzazione delle opere, superando le diverse problematiche che si paleseranno.
Individuando sistemi come il bando-tipo al quale tutte le stazioni appaltanti si dovranno uniformare, e creando delle banche-dati in grado di monitorare in modo permanente le tipologie di imprese che opereranno nel mercato degli appalti pubblici, garantendo maggiore trasparenza. Anche se sono consapevole che tutto ciò non sarà sufficiente a ostacolare il rischio che il nuovo codice appalti possa essere uno strumento criminogeno.
Un altro tema spesso denunciato dai primi cittadini è quello legato alla sicurezza urbana e alla tutela dell’ordine pubblico. Diversi hanno ribadito le difficoltà dovute alla carenza cronica di personale qualificato e di agenti municipali e all’assenza di sistemi di videosorveglianza che richiedono costi di installazione e manutenzione fuori dalla portata delle casse. Analoghe criticità sono emerse riguardo alla gestione da parte dei comuni dei beni confiscati. Su entrambi gli aspetti la Commissione si è presa l’impegno di rivolgere richieste specifiche di intervento al governo regionale. Quali sono e quanto è importante ottenere velocemente una risposta?
Con grande allarme ci è stato segnalato, soprattutto in alcune province, come nell’Agrigentino e nel Siracusano – ma praticamente in tutta la Sicilia – vi sia una diffusa circolazione di armi, utilizzate come status symbol da ampie fasce della popolazione, cosa che ha favorito il compimento di omicidi, anche plurimi. Inoltre, l’assenza o il malfunzionamento dei sistemi di videosorveglianza ha spesso ostacolato la tutela dell’ordine pubblico.
Il caso dell’ivoriano scomparso ad Acate, dove non ci sono sistemi di videosorveglianza, è un esempio. La commissione chiederà al governo regionale, così come fatto con una risoluzione urgente per i comuni della “fascia trasformata” di estendere a tutti i territori, in particolare a quelli in dissesto economico, le tecnologie utili a tutela della sicurezza e della legalità. È fondamentale dare risposte tempestive ai territori e agli amministratori che sono in prima fila su questo fronte.
Per quanto riguarda invece il dato sulle aziende confiscate poste in liquidazione le cifre in nostro possesso parlano di una percentuale prossima al 98%, un’enormità. Questo restituisce uno spaccato drammatico di un sistema che non riesce a rialzarsi e rientrare, per vari motivi, nel circuito legale.
Io ritengo che la Regione Siciliana possa e debba dare un concreto supporto, ad esempio garantendo un accesso al credito agevolato attraverso l’istituto dell’IRFIS, in modo da dare una prospettiva di riscatto sociale ai lavoratori che credono in un’economia sana e libera dalle mafie. Per la gestione, in generale, dei beni immobili la Sicilia, un’opportunità potrebbe essere quella per i comuni di costituirsi in consorzi. Un’ipotesi che permetterebbe anche di allentare eventuali pressioni ambientali del singolo amministratore locale, specie nelle piccole realtà che spesso si prestano ad essere facile bersaglio del condizionamento e della pressione mafiosa. Un’ultima deduzione non meno preoccupante rispetto alle informazioni raccolte riguarda il calo dell’attenzione e della reazione rispetto ai fenomeni mafiosi da parte della società civile. Cosa ha portato a questa indifferenza? In che modo si manifesta? Quanto contribuisce a rendere le mafie meno visibili e più libere di agire? Come si può recuperare e motivare nuovamente una risposta attiva dei cittadini?
La nostra terra ha un calendario drammatico, scandito giorno per giorno dai nomi delle vittime di cosa nostra. Ora la mafia ha scelto di inabissarsi, sperando di far dimenticare alla società civile ciò che è stato, ma i boss sono uomini senza onore che hanno ucciso bambini, donne, sindacalisti, preti, magistrati, poliziotti e carabinieri, politici e giornalisti colpevoli solo di fare il loro lavoro.
Negli anni la scuola ha fatto un lavoro straordinario, tenendo alta la vigilanza contro la mafia, ma non può essere l’unico luogo dove se ne parla: oggi chi ha 30 anni non c’era allora e non può ricordare la tensione emotiva dei giorni successivi alle stragi. Ma fino a quando i cittadini non capiranno che l’indifferenza è stata la causa del rafforzamento delle mafie, o che comprando una dose di droga se ne finanziano le risorse, non potremo dire di averle sconfitte.
La mafia va combattuta con una molteplicità di strumenti: il lavoro, la cultura, la repressione ma sapendo che ciò che cosa nostra teme di più oltre alla confisca delle loro ricchezze è la perdita di reputazione. La mafia è mafia e non una semplice banda criminale perché ha avuto sempre bisogno del riconoscimento reputazionale. Su questo terreno dovremo fare di più e meglio. Agire affinché si reagisca al calo “fisiologico” di tensione civile, a più di 30 anni dalle stragi, in tal senso promuoveremo una sorta di ‘Stati generali dell’antiracket’, per aumentare la sensibilizzazione e l’impegno di tutti.