Vincenzo D’Onofrio, il magistrato che ha lottato contro le camorre vesuviane

La prima volta che abbiamo incontrato il magistrato Vincenzo D’Onofrio è stato in una scuola in occasione della presentazione di un libro sulla terra dei fuochi. Prima di quel giorno conoscevamo Vincenzo D’Onofrio dagli atti ufficiali (le inchieste, le ordinanze, le rarissime interviste) e dalla fama che si portava dietro. Quella di un magistrato che con grande serietà ed impegno stava agendo sul territorio campano e della provincia di Napoli in particolare contro clan assai dannosi e ramificati. Determinato, di quelli che non hanno limiti d’orario quando sono sul lavoro impegnati in qualche inchiesta importante. Quel giorno, all’incontro con i ragazzi della scuola gli fecemmo dono del mio libro su Raffaele Cutolo e del primo numero della nostra rivista. Colpì, nel suo intervento, il modo garbato con cui si rivolgeva ai ragazzi. Fu diretto e soprattutto fu convincente. Un intervento di grande valore morale e una testimonianza passionale ed accorata per il giudice nato a Pomigliano d’Arco apprezzata da tutti i presenti. In quella occasione ho potuto lodare anche le doti comunicative di chi pure sembrava portato soltanto per il rigore di una magistratura d’inchiesta che deve scrivere atti, firmare ordinanze, valutare gli elementi, ordinare e seguire gli arresti. Il Procuratore D’Onofrio anche quando si tratta di parlare ad un pubblico di giovani ha il dono della coerenza e la sa comunicare. Racconta aneddoti, ricordi, i momenti di una carriera in pieno svolgimento. L’intervista che segue apre un legame tra questa rivista ed il Procuratore aggiunto Vincenzo D’Onofrio che svolge ad Avellino i compiti gravosi che aveva svolto anche a Napoli senza il tema, di non poco conto, del lavoro alla DDA di Napoli presso il quale è stato impegnato per molto tempo. Iniziamo da lì.

Dott. D’Onofrio, dodici anni di servizio prestato presso la Procura di Napoli a guidare inchieste contro clan efferati della provincia di Napoli Le hanno, di sicuro, riservato, a giudicare dai risultati, tante soddisfazioni. Ma anche momenti di grande preoccupazione. Come quando si è parlato del boss Giuseppe Di Iorio che avrebbe voluto ucciderla usando addirittura un bazooka che avrebbe dovuto colpire, secondo il pentito Pasquale Galasso, la sua auto, la BMW grigia, e farla saltare in aria. Che cosa ha pensato quando le hanno riferito quelle rivelazioni?
I quasi dodici anni di servizio alla Procura di Napoli, sono seguiti ai precedenti otto anni circa presso due Procure calabresi (prima Vibo Valentia e poi Reggio Calabria), tutti dedicati a svolgere indagini sui gruppi mafiosi dei rispettivi territori.
Questa straordinaria esperienza umana e professionale mi ha innanzitutto fatto comprendere un dato estremamente importante, da far proprio se si intenda realmente contrastare “in tempo reale” il fenomeno mafioso, che, in alcune realtà (si pensi ad alcuni quartieri di Napoli, ovvero alcune realtà della provincia di Caserta, piuttosto che le realtà calabresi della provincia di Reggio Calabria e Vibo Valentia), è anche un fenomeno sociale: gli inquirenti, per poter stare al passo con i gruppi mafiosi, devono imparare a “ragionare” come loro, a “pensare” come loro. A cosa farebbero se si trovassero a dirigere un gruppo mafioso, adeguandosi alle “regole di condotta” del singolo gruppo criminale, che è diverso da Regione a Regione, da Provincia a Provincia, da quartiere a quartiere.
I mafiosi di “cosa nostra” hanno regole di condotta profondamente diverse dagli ‘ndrangetisti, che a loro volta agiscono e pensano in maniera profondamente diversa (spesso divergente) dai camorristi.
E, via via a scendere, i camorristi dell’area casertana agiscono in maniera profondamente diversa dai camorristi dell’area metropolitana di Napoli, e questi si comportano diversamente dai loro “colleghi” dell’area vesuviana interna della provincia.
E così via. Questa è la ragione per cui, arrivato a Napoli, chiesi al Procuratore di essere assegnato all’area geo-criminale vesuviana interna, che da Cercola arriva fino a Nola. Quella in cui sono nato, sono cresciuto e che ho imparato a conoscere.
Questo tipo di approccio (sapere come ragionano, cosa perseguono, con quali metodi, a cosa alludono quando parlano per metafore e simili) consente agli inquirenti, non già di stare ad “inseguire” i gruppi camorristici e i camorristi nel loro evolversi e mutare, bensì di trovarsi “davanti a loro”. In pratica anticiparli nei movimenti e negli obiettivi.
Ed una volta trovata la “chiave di lettura” di quelle regole di condotta, procedere “a percussione”.
Questo metodo, che ho imparato in Calabria, l’ho proposto a Napoli a degli straordinari operatori di Polizia Giudiziaria, che lo hanno assimilato, fatto proprio e consentito a me e al mio Ufficio di raggiungere i risultati straordinari e le soddisfazioni professionali a cui Lei fa riferimento nella sua domanda. E la cartina di tornasole dell’efficacia di un tale metodo sta, non tanto negli arresti e nelle catture delle migliaia di camorristi (che pure vi sono stati), quanto piuttosto in due dati processuali, i quali – benchè opposti – alla fine convergono:
a) la richiesta di decine e decine di capi camorra dell’area vesuviana (da Cercola a Marigliano, da Casalnuovo ad Acerra, da Pomigliano a Castello di Cisterna, da Somma Vesuviana a Sant’Anastasia), e dell’area orientale di Napoli (Barra, Ponticelli, S. Giovanni a Teduccio) di voler collaborare con la giustizia; b) la scelta coraggiosa (quasi eroica) di decine e decine di vittime della pressione camorristica di denunciare.
Tutti chiedevano di parlare espressamente con me o con i miei più fidati collaboratori di polizia giudiziaria, assumendo che eravamo gli unici a poter “capire” ciò che avrebbero detto, in quanto si erano resi conto, nel corso di questi anni, che noi riuscivamo a prevedere le condotte, le azioni e finanche i progetti criminali futuri. In pratica, come testualmente si espresse uno dei più efferati (e criminalmente intelligenti, a dispetto della giovanissima età) capi clan dell’area acerrana, quel Pasquale Di Fiore (non Galasso) che progettò, insieme ad altri, un attentato nei miei confronti, <<dotto’, ci siamo resi conto che i nostri antagonisti, cioè Lei e i CC. di Castello di Cisterna, ragionavano come noi, ma dalla “parte opposta” alla nostra. Non riuscivo a progettare un’attività, che mi trovavo “bloccato” in anticipo dall’arresto di qualche mio affiliato da utilizzare per quel tipo di attività, da perquisizioni improvvise nei luoghi da colpire, dalla presenza inaspettata delle forze di polizia presso gli obiettivi ecc.
Questa è la ragione per cui si decise di uccidere Lei e qualche appartenente a quell’ufficio di p.g.. ed è per questo, che, quando ho deciso di collaborare con la giustizia, ho chiesto di parlare con Lei, l’unico che avrebbe potuto capire subito la serietà della mia scelta>>. Alla stessa stregua, i Sarno e gli altri capi clan dell’area orientale di Napoli.
Questo è, invece, ciò che si dicevano, tra loro, alcuni imprenditori intercettati, vittime della camorra dell’area orientale di Napoli:
“ma secondo me a questo punto seguire la strada maestra della verità è la cosa più giusta… appunto perciò ti dico è meglio essere chiari…la strada maestra è quella che si deve perseguire, perché la strada dove ..tocca.. è impegnativa, problematica, pericolosa e rischiosa e si è visto nel tempo… dobbiamo fare una scelta…e poi è pure un fatto di civiltà… . A questo punto, voglio dire, noi abbiamo scelto una scelta, no? Dobbiamo essere un attimo essere cittadini normali, vogliamo vivere più in là una situazione normale, dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni, nei magistrati perché effettivamente stanno facendo un grande lavoro e questo è un fatto importante, che ci deve… voglio dire… convincere che il nostro atteggiamento deve essere un atteggiamento costruttivo e responsabile.
Facciamolo e penso che saremmo a posto con la nostra coscienza.” [da una conv. tra imprenditori estorti del 18.4.2011]. O ancora, quando ho ascoltato in un’aula di Corte d’Assise gremita di persone e imputati, la sorella di un povero ragazzo ucciso per errore di persona dai Sarno (era stato scambiato per un rivale), ringraziare pubblicamente lo Stato e me, in quanto suo rappresentante, per aver consentito a lei e alla sua famiglia di andare con dignità a far visita alla tomba del loro caro, che fino a quel giorno era stato considerato uno dei tanti camorristi uccisi. O, ancora, il volto stravolto di un’anziana madre che da oltre 15 anni cercava il corpo di suo figlio 18enne scomparso, che ella “sentiva” essere stato ucciso, che nell’avvicinarsi a me in lacrime, in aula, mi stringeva forte le mani e mi ringraziava per aver ritrovato quel corpo e consentito a lei di posare un fiore sulla sua tomba. Episodi del genere ne avrei a centinaia da raccontare.
Ecco le soddisfazioni, che nel corso di questi oltre 20 anni di funzioni di Pubblico Ministero si sono susseguite e che mi hanno dato la forza e l’entusiasmo di andare avanti, senza il minimo dubbio. Non che non vi siano stati momenti di altissima preoccupazione, dovuti alle minacce ricevute, ai proiettili che mi sono stati recapitati, ai messaggi intimidatori che mi sono stati scritti, alle armi ritrovate nelle vicinanze dei luoghi che frequentavo, ai dialoghi intercettati in cui si parlava espressamente di una vendetta nei miei confronti o nei confronti di un mio caro, alle allusioni ai miei spostamenti e alle mie abitudini di vita quotidiana, alle allusione in pubbliche udienze ai miei figli e all’indirizzo di casa mia, ai familiari di persone per cui ho chiesto pesanti pene detentive che mi sono ritrovato a bussare al mio citofono, agli inseguimenti da parte di auto sconosciute, ai diversivi organizzati dagli uomini della mia scorta. Tutto ciò anche ora, che ho ormai lasciato la DDA e la Procura di Napoli.
Rispetto a tutto questo, però, ho cercato sempre di assumere quel comportamento a cui faceva riferimento Giovanni Falcone nel corso dell’intervista rilasciata nel 1988 alla giornalista francese M. Padovanì. A costei che gli chiedeva se avesse “paura” delle minacce, del lavoro che svolgeva, delle persone su cui investigava, egli rispose: “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, ma incoscienza.» Mi auguro di esserci riuscito. Ma questo spetta ad altri valutarlo.

Se dovesse tracciare una linea evolutiva della camorra che intravvedeva nel corso dei suoi anni universitari quando era un laureando in giurisprudenza e quella della quale si è occupato per portare in carcere i suoi esponenti che differenza farebbe? Com’era quella di anni fa e come, invece, quella di cui Lei si è occupato?
La camorra di oggi è profondamente e radicalmente diversa rispetto a quella imperante negli anni ’80, quando ero studente liceale, prima, e universitario, poi. Parlo, naturalmente, della camorra che ho meglio conosciuto, per averla contrastata: quella dell’area orientale della città di Napoli, della provincia vesuviana interna e del territorio al confine tra la provincia di Napoli e Caserta.
Gli anni ’80 sono stati quelli delle feroci guerre tra “cutoliani” e “nuova famiglia”, che fecero centinaia e centinaia di morti ammazzati, in pochissimi anni (fine anni ’70/primi anni ’80), in tutte e cinque le province della Campania e dei miliardari affari legati alla ricostruzione post-terremoto in Irpinia e in provincia di Napoli. Due enormi raggruppamenti mafiosi.
Il primo facente capo a un personaggio fortemente carismatico, Raffaele Cutolo, che si circondava di un direttorio formato da sodali feroci quanto intelligenti, molto legati agli ambienti politici e amministrativi dell’area vesuviana e delle province e al mondo imprenditoriale, specie del settore edilizio (non dimentichiamo che fu Cutolo – già detenuto – il perno centrale dell’affaire Cirillo, l’esponente politico DC sequestrato dalle BR e, a differenza di Aldo Moro, liberato dietro pagamento di un sostanzioso riscatto con denaro messo insieme da noti imprenditori napoletani). Un raggruppamento piramidale, insediato su ogni area della Campania, con propri sotto-gruppi, capeggiati da uomini ciecamente fedeli al capo unico.
Il secondo, un vero e proprio “consorzio” di clan “paritetici” (composti da uomini quasi tutti fuoriusciti dai vecchi raggruppamenti cutoliani o da questi estromessi dagli affari illeciti), che, resisi conto dello strapotere cutoliano, decisero di allearsi anche a dispetto delle diversità di vedute e provenienze geo-criminali (Casal di Principe, Acerra, zone nolane, paesi vesuviani, zone dell’agro-nocerino-sarnese, Salerno e provincia, diversi quartieri della città di Napoli, Marano, Giugliano, Benevento, Avellino) alcuni forti dei loro legami con “cosa nostra” (per es. i Nuvoletta di Marano), decisero di aprire guerra a Cutolo e alle sue “ricchezze” (la gran parte in quel momento provenienti dalla ricostruzione post-terremoto dell’80). Era l’epoca della “cappa” quasi visibile o udibile di omertà che imperava interi territori. Un’omertà anche interna, dove il singolo affiliato doveva utilizzare meno parole possibili. Valevano i sottintesi, le minacce implicite (che spesso si trasformavano in feroci esecuzioni), gli ammiccamenti e le allusioni. La camorra, oggi, in quei territori è mutata profondamente. Non vi sono più, almeno fino a quando ho lasciato Napoli, i vecchi raggruppamenti, letteralmente azzerati in questi ultimi 10 anni dallo straordinario lavoro svolto, in sinergia e perfetta corrispondenza di intenti, tra Forze di Polizia e Autorità Giudiziaria. Ma ciò, naturalmente, non ha debellato il fenomeno, nella misura in cui non possono arginarsi gli affari illeciti (legati soprattutto al traffico della droga).
Ora è una camorra che, a prescindere dal generalizzato “abbassamento” dell’età media (che è peculiare solo nel numero di adolescenti ancora in età scolare che vi aderisce, giacchè anche in passato si entrava a far parte dei clan poco più che ventenni), si caratterizza soprattutto per il sostanziale “sganciamento” da altri segmenti sociali (imprenditoria, politica, amministrazione locale), nel senso che si muove non più in connivenza e/o collusione con loro, quanto piuttosto in autonomia: la prima ha assunto caratteristiche essenzialmente “predatorie”, puntando per lo più alla gestione del mercato della droga e alle estorsioni pure (anche quelle ai danni di piccoli imprenditori o esercenti commerciali). Ciò ha comportato una sorta di “immoralità” (non vorrei essere frainteso) del loro agire anche agli occhi di chi un tempo, invece, guardava ai capi clan, in una malintesa ottica di onorabilità, quasi come un “male buono” (non sembri un controsenso), personaggi a cui rivolgere istanze di qualsivoglia tipo, dall’assunzione di un proprio familiare fino alla dilazione di un pagamento, da un recupero crediti alla restituzione di un veicolo rubato. Non a caso, Ciro Sarno, capo dell’omonimo storico clan di Ponticelli, era soprannominato “o sindaco” (scimmiottando la straordinaria opera di E. De Filippo).
La politica e l’imprenditoria, invece, si muovono su direttrici completamente autonome e non intersecantisi con la prima: quella delle opere pubbliche e della corruzione.
La prima, la politica, del tutto o quasi insensibile ad una rinascita sociale di intere aree geografiche e territoriali. La seconda, l’imprenditoria, ammortizzando il prezzo della corruzione corrisposto al politico e l’eventuale pagamento estorsivo fatto alla camorra nei costi dell’opera, accollandoli così, interamente, alla collettività, o in termini di scarsa qualità dell’opera o in termini di aumento della pressione fiscale. In pratica, in questi anni, quelli che un tempo vennero definiti i tre piedi di uno stesso tavolo (politica/amministrazione pubblica, imprenditoria e camorra), in cui ognuno aveva necessità di fornire ausilio agli altri per evitare che quel simbolico manufatto crollasse, si sono via via (almeno nelle aree a cui ho fatto cenno) distaccati, facendo affari “in proprio”, che solo raramente e solo in alcuni punti coincidono. Oggi può difficilmente accadere che un’aspirante politico/amministratore procacci i voti camorristici, fornendo in cambio premesse di prebende pubbliche o favori, nella misura in cui gli interlocutori camorristi sono poco più che adolescenti, la maggior parte dei quali già devastati dall’assunzione di droghe pesanti, ignari totalmente delle dinamiche sociali.
Ma si è verificato anche qualcosa altro. O, almeno, ciò ho riscontrato in molte delle indagini che ho condotto in questi anni, tra Calabria e Campania: il segmento politica/imprenditoria ha mutuato qualcosa dalla camorra. Ha mutuato il “metodo”, non tanto sotto l’aspetto della “intimidazione” (che spesso pur interviene da parte del politico nei confronti dell’imprenditore), quanto piuttosto sotto quello del “silenzio”, della “omertà”, il vero pilastro su cui si fonda ogni agire mafioso.
In sostanza si è verificato che nell’intreccio criminale tra politico e imprenditore la cappa del “silenzio” garantisce profitti per tutti. E ciò è dipeso molto anche dalle altalenanti novelle legislative, che hanno messo in piedi un sistema punitivo estremamente blando e farraginoso, in cui la denuncia “non conviene” a nessuno. Un tempo si perseguiva una politica legislativa volta a riconoscere “ponti d’oro al nemico che fugge”. Nel corso di questi ultimi 20 anni, invece, si sono costruite, legislativamente parlando, strade tortuosissime, sia processuali che sostanziali, per arrivare alla condanna definitiva per reati del genere. Per cui, in un sistema del genere è il “tacere” che conviene e non più il “parlare”.
Conviene anche a coloro che vengono penalizzati dalle scelte frutto di accordo corruttivo, giacchè sanno che l’eventuale denuncia li isolerebbe dal “sistema”, all’interno del quale, invece, proprio il silenzio, l’aver taciuto, l’aver evitato di denunciare, costituisce una sicura patente di “affidabilità”.

Come giudica la risposta della società civile nell’azione di argine verso il crimine organizzato? Può mai essere solo un affare di magistrati e forze dell’Ordine?
Se il fenomeno da contrastare è la camorra o, meglio e più precisamente, il “metodo camorristico” che ho descritto, esso non può assolutamente essere fronteggiato solo con gli strumenti repressivi (spesso, troppo spesso, “spuntati”) riconosciuti agli organi investigativi e inquirenti.
La magistratura – mi piace ripetere spesso – interviene quando “il morto è a terra”. Vi sono altre istanze precedenti che dovrebbero attivarsi affinchè il morto non vi sia. La magistratura, l’istanza punitiva è l’estremo rimedio all’interno di in una struttura organizzativa complessa. Tanto minore è il suo intervento, quanto maggiore è l’efficienza e l’efficacia delle azioni preventive, che non sono naturalmente quelle (o solo quelle) affidate pur sempre alle forze di polizia. Si tratta di istanze culturali, sociali, ambientali rimesse alla competenza di famiglie, scuole, università, politici, amministratori pubblici, imprenditori. Si tratta di una scelta di valori di riferimento. Si deve decidere se si vuol essere un Paese in cui deve prevalere (e divenire regola generalizzata di condotta) il cd. “principio dell’affidamento” ovvero deve continuare a operarsi secondo una logica egoistica e di breve respiro. Se ognuno deve poter contare sul fatto che tutti gli altri, ma proprio tutti, perseguano con le loro azioni, nel loro campo, l’interesse di tutti (consapevole che tra i “tutti” vi è anche lui) ovvero si deve continuare ad assistere a quella che Franco Roberti ha plasticamente (e brillantemente) definito la “privitizzazione della cosa pubblica”, una regola tipica della mafia, dove il politico o l’amministratore di turno piega l’ufficio o l’incarico che ricopre (per un tempo più o meno lungo) all’esclusivo interesse proprio e della cricca di “amici” e “amici degli amici”, facendolo diventare una “cosa sua”.
Cultura (scuola e università), lavoro, salute e giustizia. Sono i quattro indici significativi, le quattro lenti attraverso le quali io misuro (in una scala da 1 a 10) il grado di “civiltà” di una nazione.
Il sapere aiuta a parlare e confrontarsi. E a comprendere quando si è in errore e bisogna cambiare idea. Un lavoro solleva ciascuno dalle angosce del vivere quotidianamente in maniera dignitosa. Un sistema sanitario organizzato e efficiente aiuta a vivere bene e più a lungo, in maniera più lucida e senza affanni, fisici e psicologici. Un sistema giudiziario efficace e efficiente, forte e realmente (e non solo formalmente) egalitario, garantirebbe la giusta, rapida e effettiva punizione nel settore penale e decisioni rapide e condivise in quello civile. Sono questi i settori in cui uno Stato “civile” deve investire se intende sradicare il “metodo mafioso”, perché il mancato funzionamento di ciascuno di essi determina l’innalzamento del potere mafioso e del suo metodo.
L’assenza di cultura genera una subcultura egoistica, in cui il “farsi i fatti propri” prevarrà sull’interesse collettivo. Determina la mancanza di sapersi confrontare e comprendere la convenienza del bene comune. La regola che il “mafioso” (inteso in senso lato, come colui che si comporta con metodo mafioso) odia di più è quella di chi si “fa i fatti degli altri”, di chi non si gira dall’altra parte, di chi intende confrontarsi e contestare le sue scelte. Il mafioso odia le parole. L’assenza di lavoro rimpingua la manovalanza delle organizzazioni e fa consegnare la propria dignità nelle mani del politico o dell’amministra-tore di turno.
La mancanza di una sanità efficiente, consegna le vite umane nelle mani di pochi, capaci (con violenza e/o abusi) di far “saltare” le liste di attesa, di arricchirsi per interventi che, se tutto funzionasse, sarebbero gratuiti ovvero con prescrizioni di farmaci inutili, frutto solo di indebiti accordi con le grandi case farmaceutiche. E un cittadino in ansia per la propria saluta o per quella di un suo caro diventa “socialmente cieco” e disposto a rimettersi alle decisioni dei suoi potenziali “salvatori”.
Senza una giustizia celere ed efficiente, infine, il cittadino è portato, per un verso, a pensare che tutto sia addebitabile ai giudici e, per altro verso, che conviene trovare “scorciatoie” più rapide e sicure. Si pensi ai recuperi crediti, alla restituzione della refurtiva o alla risoluzione di controversie private, al riconoscimento di un posto di lavoro; problematiche le cui soluzioni sempre più spesso vengono affidate ai capi camorra. Con un duplice deleterio esito: per un verso, si aumenta l’atteggiamento critico verso i giudici tutti (con enorme gioia dei “mafiosi”), e, per altro, si ingrandisce il prestigio del capo clan, che viene riconosciuto capace di risolvere anche i conflitti sociali ed economici dei singoli.
Ebbene, detto questo, mi chiedo spesso: in Italia, a quale livello di sviluppo è possibile collocare questi quattro segmenti, e, di conseguenza che grado di civiltà possiamo riconoscere al nostro Paese? La risposta la lascio agli altri.
Proprio queste situazioni portano la cd. “società civile” (io la definirei meglio come “collettività”) ad essere confusa. Specie le generazioni più giovani oscillano tra valori altissimi, intorno ai quali molti provano a coagularsi e diventare rappresentativi (lotta alla mafia piuttosto che all’inquinamento ambientale, alla valorizzazione della solidarietà tra i popoli, alla tutela delle minoranze e simili), e valori legati ad una società fatta di apparenza e di consumo (penso, per es., alle migliaia di ragazzi che si presentano ai provini per i cd. reality piuttosto che ad audizioni canore e/o cinematografiche; ai componenti dei gruppi ultrà del calcio, sempre più collegati e sovrapposti alle bande che gestiscono e spacciano stupefacenti ecc.). E la confusione nasce, purtroppo anche dalla scarsa fiducia che la nostra generazione, specie nelle terre di mafia, è riuscita a trasferire ai più giovani. Una generazione, la nostra, che ha optato generalmente, nel contrasto al crimine organizzato di matrice mafiosa, per un modello basato su uno spirito egoistico, un atteggiamento basato sul concetto che “farsi i fatti propri” avrebbe fatto vivere meglio e più a lungo, senza rendersi conto che così facendo, per un verso si sono consegnate intere parti del Paese ai mafiosi e a politici incapaci e/o corrotti e, per altro verso, si sono sovresposti quei pochi che avevano la forza e il coraggio di portare avanti le loro idee o semplicemente un’idea “civile” di esistenza. Penso ai magistrati, ai giornalisti, ai preti, ai sindacalisti, agli appartenenti alle forze di polizia uccisi negli anni.
Tutti uccisi perchè semplicemente – come commentavano i loro assassini – “non si erano fatti i fatti propri” o, peggio, si erano “fatti i fatti dei mafiosi”.
Un magistrato o un esponente delle forse dell’ordine questo lo deve fare per legge. Un giudice, un pubblico ministero, un poliziotto o un carabiniere che si “fa i fatti suoi” di fronte ad un crimine commette un reato.
Gli altri, la “società civile” che si “fa i fatti suoi” (girandosi dall’altra parte, facendo finta di non vedere, affidare ad incapaci la gestione della cosa pubblica, disinteressarsi di ciò) commette un’azione molto più grave: uccide il futuro dei suoi figli.

Chi sono gli amici della camorra? Chi sono i suoi nemici?
Sono esattamente costoro, quelli che (per convenienza, per interesse, per paura, per vigliaccheria, per disinteresse) tacciono e che invitano altri a fare altrettanto, i più fedeli, anche se spesso inconsapevoli, amici della camorra e di coloro che ricorrono al metodo camorristico. Così scrivevo in una delle richiesta cautelari presentate al GIP di Napoli, nel rappresentare la condotta, all’epoca inaspettata, di collaborazione di alcuni imprenditori:
“…È bello pensare che vi sia una sorta di rinascita sociale. È bello credere che, finalmente, le vittime di sì belluini delinquenti abbiano intuito che il silenzio giova esclusivamente a questi e che solo la parola riesce ad abbatterli.
La speranza è che l’esempio degli imprenditori di via Botteghelle si diffonda rapidamente e con la stessa intensità con cui si è diffuso per decenni il crimine organizzato, e lo possa abbattere, non a suon di manette e ordinanze di custodia cautelare, ma con la forza della dignità, a testa alta e senza paura.
Sarebbe per la camorra la più cocente delle sconfitte. Per lo Stato la più inaspettata delle vittorie.
Almeno piace crederlo…”

Quale clan, indagine, personaggio camorristico ha maggiormente suscitato la Sua indignazione?
È difficile per il magistrato penale dare una risposta coerente a questa domanda, nella misura in cui, per dovere sono chiamato a valutare e giudicare le condotte di soggetti che commettono crimini e, quindi, “indegni” per definizione. A maggior ragione se si tratta di crimini di matrice mafiosa. Per cui, non vi può essere una scala di (dis)valori in tal senso. Ciò che invece questa mia lunga esperienza nel settore dell’antimafia mi ha fatto comprendere è che non vi sono mafiosi “degni”, non vi sono mafiosi “onorevoli”, non vi sono mafiosi “stimabili”. Ciò vale per i capi clan del passato e per i baby-boss di oggi. Tutti, indifferentemente indegni (in senso anche criminale, oltre che civico). Senza il senso della lealtà (nemmeno a sé stessi): doppiogichisti, vigliacchi, falsi, traditori. Così hanno costruito, tutti, la loro ascesa criminale, attirando alla loro “causa” giovani ingenui, illusi e poco avveduti, capaci solo di atti di violenza feroce, attraverso la visione di un’illusoria, quanto irraggiungibile ricchezza.
Non ho mai visto, in tutti questi anni, soldati dei clan arricchirsi. A loro è stato semplicemente concesso di raccogliere da terra le minute briciole cadute dal tavolo su cui i capi banchettavano crassi. E, oltre, di andare ad uccidere e farsi uccidere in nome dei capi. Vigliacchi anche in questo.

Che bilancio può fare oggi degli anni trascorsi alla Procura di Napoli e prima ancora in Calabria? E oggi qui, ad Avellino, da Procuratore aggiunto, cosa è cambiato?
Debbo evidenziare che gli oltre 20 anni di magistratura inquirente, tra Calabria e Napoli sono stati la parte più entusiasmante della mia vita. Il bilancio è ampiamente positivo. Naturalmente situazioni di tensione, personale e professionale, non sono mancate, ma sono decisamente soccombenti rispetto ai momenti, alle situazioni e ai risultati favorevoli, che – anche a cagione della mio temperamento – le ho volutamente rimosse o dimenticate. Fondamentale l’aiuto delle persone care e degli amici, di alcuni colleghi straordinari, di alcuni appartenenti alle forze dell’ordine leali e professionalmente attrezzati, dei collaboratori amministrativi che in questi anni si sono succeduti al mio fianco.
Il nuovo incarico, da Procuratore Aggiunto, presso il Tribunale di Avellino è sopraggiunto inaspettato, ma proprio per questo ancora più gradito.
Inaspettato, nel senso che, pur avendo presentato la domanda, non credevo di prevalere rispetto ad altri eccellenti colleghi che pur concorrevano per il medesimo incarico.
Gradito perché mi porta a svolgere la mia attività presso una Procura diretta da uno dei magistrati a cui sono maggiormente legato, sia in termini affettivi che professionali, già mio affidatario ai tempi del tirocinio e, successivamente, Coordinatore della DDA di Napoli all’epoca in cui prestavo servizio presso quell’Ufficio. La funzione di Procuratore Aggiunto è profondamente diversa da quella di un sostituto, sebbene in parte continui a svolgere attività investigativa nel settore delle criminalità economica.
È un ruolo di coordinamento e direzione, di gestione di uomini e situazioni, che naturalmente è ben diverso da quello dell’investigazione pura. Significa mettere la propria esperienza al servizio dei colleghi più giovani e tentare di veicolare quelle che sono state le proprie capacità.
In pratica, una nuova sfida personale e professionale, che affronterò con lo stesso spirito e entusiasmo, forza e determinazione di quando, oltre venti anni fa (era il 22 maggio 1992), decisi di svolgere il concorso in magistratura, consegnando l’elaborato della terza delle tre prove scritte previste (il tema di diritto penale) nella mani di una componente della Commissione, dagli occhi neri e sorridenti, che, senza che ci conoscessimo, mi salutò stringendomi la mano e dicendomi di essere sicura che ce l’avrei fatta.
Scoprii il giorno dopo, mio malgrado, chi fosse quella splendida donna: Francesca Morvillo, compagna di Giovanni Falcone, vittima, insieme a lui, della strage di Capaci.

Le manca Napoli e la lotta di frontiera che ha svolto in questi anni?
Non mi manca niente del mio passato professionale. Per mia abitudine sono portato a guardare al futuro, immaginando ottimisticamente che possa riservare sempre il meglio.

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